Un viaggio in guerra

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Andare in Israele insieme era un nostro sogno di lunga data. Quando mio marito ha proposto di andare lì per celebrare i dieci anni del nostro matrimonio, ho accettato con piacere. 

Siamo arrivati il 10 di giugno e già all’aeroporto abbiamo avuto la prima avvisaglia: la sirena ha suonato mentre eravamo al binario del treno per Tel Aviv. La gente si è compattata nel sottoscala in attesa del cessato allarme. 

Nei primi giorni abbiamo potuto godere in pieno della vitalità di Tel Aviv: mare, mercato, museo di arte contemporanea. La gioiosa quotidianità era puntellata dai ricordi delle tragedie recenti: adesivi e banner con le foto degli ostaggi e dei soldati caduti, bandiere israeliane dappertutto, nastri gialli sulle macchine e sulle borse. 

Alle tre di notte di venerdì abbiamo sentito risuonare la sirena. Sul telefono sono apparsi gli avvisi di Home Front Command. Non eravamo pronti e siamo rimasti in camera, fino al cessato allarme: era l’Israele che stava attaccando, eravamo al sicuro in quel momento. 

Tutte le volte successive, invece, siamo andati correndo al rifugio: nei primi giorni in una stanza al primo piano della casa accanto alla nostra e poi, quando ci siamo trasferiti dagli amici nel quartiere di Florentin, in un parcheggio del palazzo di fronte. 

Quel palazzo molto speciale era abitato dagli sopravvissuti del kibbutz Re’im. Il governo ha provveduto ad affidare a loro lo stabile di recente costruzione per mantenere la coesione di questa comunità ferita. 

Nel parcheggio sotterraneo, dove ci trovavamo un paio di volte al giorno al piano -3 accorrevano anche gli abitanti delle case dei dintorni che non avevano mamad o rifugio sotterraneo. C’erano con noi tanti indiani, alcuni cinesi del cantiere vicino, una famiglia nigeriana. Tutti scendevano in modo ordinato giù per le scale ed aspettavano dieci minuti. Anche se l’aria diventava presto soffocante, l’atmosfera era serena e amichevole. 

Fra un allarme e l’altro c’era ben poco da fare: era sconsigliato viaggiare, erano vietati gli assembramenti, molti negozi erano chiusi. Eppure, volevamo girare, e ogni giorno facevamo un piccolo tour del quartiere. 

Alcune strade erano deserte, in altre invece trovavamo caffè vivaci pieni di giovani. C’era gente in spiaggia, al mercato, nei giardini.

Eravamo entrati in una sorta di routine, che imponeva alcuni accorgimenti nella vita quotidiana: dormire vestiti, fare la doccia molto in fretta, mettere la sera le scarpe e le borse d’emergenza accanto alla porta per non cercarli quando suonerà la sirena. A parte questo, era tutto normale: cene abbondanti, amici che vengono a trovarci, passeggiate al tramonto. 

Abbiamo comunque contattato l’ambasciata al numero di emergenza. Le informazioni che ci fornivano erano centellinate perché evidentemente la situazione era imprevedibile. Chiedevano di aspettare, in sostanza. 

Giovedì 19/06 è arrivata la telefonata: ci proponevano una “partenza assistita facilitata dalla Farnesina”, ovvero un viaggio a pagamento gestito da una agenzia di loro fiducia. 

Era molto difficile prendere una decisione: dovevamo pagare una cifra piuttosto alta per un viaggio lungo e faticoso, che prevedeva tante ore in autobus attraverso il Negev, poi passaggio della frontiera egiziana a piedi e di nuovo tante ore in bus fino a Sharm-el-Sheih e il volo fino a Verona che arrivava a notte fonda. E se il giorno dopo tornasse la normalità e i voli di linea? E se, invece, fosse solo l’inizio, anticipo di una campagna militare ancora più intensa? 

Non lo poteva sapere nessuno, e l’ambasciata sollecitava una risposta veloce. Così, abbiamo accettato la loro proposta. 

Prima di andarcene, ho insistito però su un viaggio a Gerusalemme. Abbiamo viaggiato con il treno e all’arrivo ho voluto andare subito a rivedere il collegio religioso nel quartiere Mekor Baruh, dove avevo studiato per sei mesi trent’anni fa. Poi siamo stati al mercato Mahane Yehuda e nella città vecchia. 

L’atmosfera lì era surreale: strade vuote, zero turisti, molte botteghe chiuse, commercianti seduti davanti con l’aria affranta. Solo al Muro del Pianto c’era un po’ di fedeli, probabilmente gli abitanti del quartiere ebraico. Sarebbe stato bello poter visitare il tutto con calma, senza code o distrazioni, se non fosse per la triste causa di tale desolazione. 

Domenica mattina con la tristezza nel cuore abbiamo salutato gli amici e siamo arrivati all’ambasciata. C’erano ben tre autobus pieni di cittadini italiani e non solo. 

La partenza è stata ritardata perché mancavano all’appello alcuni viaggiatori. Poi ha suonato l’allarme e abbiamo dovuto scendere nel parcheggio, in compagnia dell’ambasciatore. Dopo il cessato allarme, alle otto e mezza siamo finalmente partiti. 

Lo sguardo cercava di cogliere tutti i minimi dettagli delle città che attraversavamo per poi perdersi nel vuoto del deserto, puntellato qua e là da torri di guardia, sagome di animali e piantagioni di datteri. 

Dopo Eilat e il passaggio della frontiera tutto è diventato più difficile. Le lungaggini al controllo passaporti ci hanno fatto perdere quasi tre ore. Poi ci siamo accomodati in un bus stretto e scomodo che viaggiava lungo una strada stretta fra le rocce franate e villaggi turistici abbandonati. 

All’aeroporto di Sharm-el-Sheikh ci aspettavano due controlli di passaporti e due controlli dei bagagli, in mezzo alla gente rilassata che tornava dalle vacanze.  

Israele era ormai distante nello spazio, ma rimaneva saldamente ancorato nel centro dei nostri cuori. 

Marina Sorina

25 giugno 2025

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