limiti di un libero mercato – Parashat Behar-Bechukotai

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l

tradotto ed adattato da David Malamut

Mentre scrivevo questa derasha, un titolo di giornale ha attirato la mia attenzione. Diceva: “Le persone più ricche del Regno Unito hanno sfidato la doppia recessione diventando ancora più ricche nell’ultimo anno”. [l’articolo in questione, pubblicato il 28 aprile 2012, è https://www.bbc.com/news/uk-17883101]

Questo nonostante il fatto che la maggior parte delle persone sia diventata più povera, o almeno abbia visto il proprio reddito reale rimanere invariato, dalla crisi finanziaria del 2008. Come va il detto, “Non c’è nulla di più sicuro: i ricchi diventano ricchi e i poveri diventano più poveri“. È a questo fenomeno che si rivolge la legislazione sociale di Parshat Behar.

Levitico 25 stabilisce una serie di leggi il cui scopo è correggere la tendenza verso una disuguaglianza radicale e in continua crescita derivante dal gioco sfrenato dell’economia di mercato libero. Abbiamo quindi l’anno sabbatico (Shemittah) in cui i debiti venivano cancellati, la terra rimaneva incolta e il suo prodotto, non raccolto, apparteneva a tutti. C’era l’anno del Giubileo (Yovel) in cui, salvo alcune eccezioni, le terre ancestrali tornavano ai proprietari originari. C’era il comandamento di aiutare i bisognosi (“Se qualcuno dei vostri fratelli israeliti diventa povero e non è in grado di provvedere alle proprie necessità, aiutatelo come fareste con uno straniero e un forestiero, perché possa continuare a vivere tra voi” (Levitico 25, 35). E c’era l’obbligo di trattare gli schiavi non come schiavi, ma come “lavoratori salariati o residenti temporanei” (Levitico 25, 40).

Come ha sottolineato Heinrich Heine:

Mosè non voleva abolire la proprietà; desiderava, al contrario, che tutti possedessero qualcosa, affinché nessuno potesse, a causa della povertà, diventare uno schiavo con una mente servile. La libertà fu per sempre il pensiero ultimo di questo grande emancipatore, e ancora oggi spira e arde in tutte le sue leggi che riguardano il pauperismo.” (Israel Tabak, Judaic Lore in Heine, Johns Hopkins University Press reprints, 1979, 32.)

Nonostante queste leggi fossero scritte nei tempi antichi, esse hanno ripetutamente ispirato coloro che si confrontano con questioni di libertà, equità e giustizia. Il versetto sull’Anno del Giubileo (“Proclamate la libertà in tutta la terra e per tutti i suoi abitanti“. Levitico 25, 10) è inciso sulla Campana della Libertà a Filadelfia. Il movimento internazionale iniziato alla fine degli anni ’90 e che ha coinvolto oltre 40 nazioni, impegnato in una campagna per la cancellazione del debito del Terzo Mondo, è stato chiamato Giubileo 2000 ed è stato direttamente ispirato dalla nostra Parasha.

L’approccio della Torah alla politica economica è insolito. Chiaramente non possiamo trarre alcuna deduzione diretta dalle leggi emanate più di tremila anni fa, in un’epoca agricola e in una società consapevolmente sotto la sovranità di Dio, alle circostanze del XXI secolo con la sua economia globale e le multinazionali. Tra i testi antichi e l’applicazione contemporanea si colloca l’intero attento processo di tradizione e interpretazione della Legge Orale (Torah shebe’al peh).

Tuttavia, sembrano esserci alcuni parametri importanti. Il lavoro, guadagnarsi da vivere, guadagnarsi il pane quotidiano, ha dignità. Un Salmo (Tehillim 128, 2) afferma:

Quando tu mangi [il frutto] della fatica delle tue mani, tu sei beato e te ne verrà del bene.”

Lo diciamo ogni sabato sera all’inizio della settimana lavorativa. A differenza di culture aristocratiche come quella dell’antica Grecia, l’ebraismo non ha mai disprezzato il lavoro o l’economia produttiva. Non ha favorito la creazione di una classe agiata.

Lo studio della Torah senza un’occupazione alla fine fallirà e porterà al peccato” (trattato di Avot 2, 2)

In secondo luogo, a meno che non vi siano ragioni impellenti contrarie, si ha diritto ai frutti del proprio lavoro. L’ebraismo diffida del governo centralizzato eccessivo, considerandolo una minaccia alla libertà. Questo è il fulcro dell’avvertimento del profeta Samuele sulla monarchia: Un re, dice, “prenderà il meglio dei vostri campi, delle vostre vigne e dei vostri uliveti e li darà ai suoi servi… Prenderà la decima delle vostre greggi, e voi stessi diventerete suoi schiavi” (Libro di Samuele I, cap. 8).

L’ebraismo è la religione di un popolo nato in schiavitù e desideroso di redenzione; e il grande attentato della schiavitù alla dignità umana è che mi priva della proprietà della ricchezza che creo. Al centro della Bibbia ebraica c’è il Dio che cerca la libera adorazione di esseri umani liberi, e una delle più potenti difese della libertà è la proprietà privata come base dell’indipendenza economica. La società ideale immaginata dai profeti è quella in cui ogni persona può sedersi “sotto la propria vite e il proprio fico” (Libro di Michea 4, 4).

L’economia libera utilizza il combustibile della concorrenza per alimentare il fuoco dell’invenzione. Molto prima di Adam Smith, l’Ebraismo aveva accettato l’idea che i maggiori progressi siano spesso il frutto di impulsi del tutto privi di spiritualità. “Vidi“, dice l’autore dell’Ecclesiaste, “che ogni fatica e ogni successo nascono dall’invidia dell’uomo per il prossimo“. O, come affermano i saggi talmudici, “Se non fosse per la cattiva inclinazione, nessuno costruirebbe una casa, sposerebbe una moglie, avrebbe figli o si impegnerebbe in affari“.

I rabbini favorivano persino il libero mercato nel loro stesso ambito di educazione ebraica. Un insegnante affermato, dicevano, non poteva opporsi a un rivale che si mettesse in competizione. La ragione che adducevano era semplicemente: “La gelosia tra gli studiosi accresce la saggezza” (trattato di Bava Batra 21a).

L’economia di mercato è il miglior sistema che conosciamo per alleviare la povertà attraverso la crescita economica. In una sola generazione, negli ultimi anni, ha sollevato dalla povertà 100 milioni di indiani e 400 milioni di cinesi, e i saggi consideravano la povertà un attentato alla dignità umana. La povertà non è una condizione benedetta o divinamente ordinata. È, dicevano i rabbini, “una specie di morte” e “peggio di cinquanta piaghe“. Dicevano: “Nulla è più difficile da sopportare della povertà, perché chi è schiacciato dalla povertà è come colui a cui si aggrappano tutti i mali del mondo e su cui sono scese tutte le maledizioni del Deuteronomio. Se tutti gli altri problemi fossero messi da una parte e la povertà dall’altra, la povertà avrebbe la meglio su tutti.

Tuttavia, l’economia di mercato è più efficace nel produrre ricchezza che nel distribuirla equamente. La concentrazione della ricchezza in poche mani conferisce un potere sproporzionato ad alcuni a scapito di altri. Oggi in Gran Bretagna non è insolito che i CEO di alto livello guadagnino almeno 400 volte più dei loro dipendenti. Questo non ha prodotto crescita economica o stabilità finanziaria, ma il contrario. Mentre scrivo queste parole, uno dei consiglieri di Margaret Thatcher, Ferdinand Mount, ha appena pubblicato una critica della deregolamentazione finanziaria da lei introdotta: “The New Few”. Altrettanto impressionante è il recente libro dell’economista sudcoreano Ha-Joon Chang, ”23 cose che non ti dicono sul capitalismo.” Non si tratta di una critica dell’economia di mercato, che a suo avviso è ancora il miglior sistema esistente. Ma, per usare le sue parole, “necessita di un’attenta regolamentazione e di una guida mirata“.

Questo è ciò che rappresenta la legislazione contenuta nel Behar. Ci dice che un sistema economico deve esistere all’interno di un quadro morale. Non deve necessariamente mirare all’uguaglianza economica, ma deve rispettare la dignità umana. Nessuno dovrebbe essere imprigionato per sempre nelle catene del debito. Nessuno dovrebbe essere privato di una quota del Commonwealth, che in tempi biblici significava una quota della terra. Nessuno dovrebbe essere schiavo del proprio datore di lavoro. Tutti hanno il diritto, un giorno su sette, un anno su sette, di prendersi una pausa dalle infinite pressioni del lavoro. Niente di tutto ciò significa smantellare l’economia di mercato, ma può comportare una periodica ridistribuzione.

Al centro di queste leggi c’è una visione profondamente umana della società. “Nessun uomo è un’isola“. Siamo responsabili gli uni degli altri e implicati nel destino degli altri. Coloro che sono benedetti da Dio con più del necessario dovrebbero condividere parte di questa sovrabbondanza con coloro che hanno meno del necessario. Nell’ebraismo, questo non è una questione di carità, ma di giustizia: questo è il significato della parola tzedakah. Abbiamo bisogno di un po’ di questo spirito nelle economie avanzate di oggi, se non vogliamo assistere a miseria umana e disordini sociali. 

Nessuno lo ha espresso meglio di Isaia nel primo capitolo del libro che porta il suo nome:

Cercate la giustizia, sostenete gli oppressi,

difendete la causa dell’orfano,

difendete la causa della vedova…” (Isaia 1, 17)

L’umanità non è stata creata per servire i mercati. I mercati sono stati creati per servire l’immagine di Dio che, appunto, è l’umanità stessa.

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