La perdita di Miriam – Parashat Chukat

 In Parashà della Settimana

di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l

tradotto ed adattato da David Malamut

È una scena che ha ancora il potere di sconvolgere e turbare. La gente si lamenta. Non c’è acqua. È una lamentela vecchia e prevedibile. È quello che succede nel deserto. Mosè avrebbe dovuto essere in grado di gestirla con facilità. Aveva affrontato sfide ben più dure ai suoi tempi. Eppure, improvvisamente, a Mei Meriva (“le acque della contesa”), esplose in una rabbia ingiuriosa:

<< E Mosè ed Aronne adunarono la moltitudine davanti al sasso, e (Mosè) disse loro: Ascoltate, o ribelli! Potremmo noi da questo sasso farvi uscire dell’acqua? E Mosè alzò il braccio, e batte il sasso colla sua verga due volte, e n’uscì molta acqua, e ne bevette la congrega ed il Suo bestiame.>> (Numeri 20, 10–11)

In precedenti derashot ho sostenuto che Mosè non peccò. Semplicemente, egli era la guida giusta per la generazione che aveva lasciato l’Egitto, ma non per i loro figli che avrebbero attraversato il Giordano e si sarebbero impegnati nella conquista di una terra e nella costruzione di una società. Il fatto che non gli fosse permesso di guidare la generazione successiva non fu un fallimento, ma un’inevitabilità. Come gruppo di schiavi che si trovavano ad affrontare la libertà, un nuovo rapporto con Dio e un viaggio difficile, sia fisicamente che spiritualmente, i Figli d’Israele avevano bisogno di una guida forte, capace di confrontarsi con loro e con Dio. Ma come costruttori di una nuova società, avevano bisogno di una guida che non facesse il lavoro al posto loro, ma che li ispirasse a farlo da soli.

Il volto di Mosè era come il sole, il volto di Giosuè era come la luna (trattato Talmudico di Bava Batra pagina 75a). La differenza è che la luce del sole è così forte che non lascia nulla da fare a una candela, mentre una candela può illuminare quando l’unica altra fonte di luce è la luna. Giosuè diede più potere alla sua generazione di quanto avrebbe fatto una figura forte come Mosè.

Ma c’è un’altra domanda a proposito dell’episodio di cui abbiamo letto questa settimana. Cosa ha reso questa prova diversa? Perché Mosè ha perso momentaneamente il controllo? Perché allora? Perché proprio lì? Aveva già affrontato questa stessa sfida in precedenza. La Torah menziona due episodi precedenti. Uno ebbe luogo a Mara, quasi subito dopo la divisione del Mar Rosso. Il popolo trovò dell’acqua, ma era amara. Mosè pregò Dio, Dio gli disse come addolcirla e l’episodio passò. Il secondo episodio avvenne a Refidim (Esodo 17, 1-7). Questa volta non c’era affatto acqua.

Mosè rimproverò il popolo: “Perché litigate con me? Volete mettere alla prova Dio?” Poi si rivolse a Dio e disse: “Che cosa farò con questo popolo? Tra poco mi lapideranno!” Dio gli disse di andare a una roccia a Horeb, prendere il suo bastone e colpirla. Mosè lo fece e ne uscì acqua. Ci fu dramma, tensione, ma niente a che vedere con il disagio emotivo evidente nella parasha di Chukat di questa settimana. Sicuramente Mosè, ormai quasi quarant’anni più vecchio, con una generazione di esperienza alle spalle, avrebbe dovuto affrontare questa sfida senza drammi. C’era già passato.

Il testo ci fornisce un indizio, ma in modo così edulcorato che possiamo facilmente non notarlo. Il capitolo inizia così: ” I figli d’Israel, tutta la congrega, entrarono nel deserto di Ssin, nel mese primo, ed il popolo si fermo in Cadèsh; ed ivi morì Mirjàm, e fu ivi sepolta. Non v’era acqua per la congrega, e s’attrupparono attorno a Mosè e ad Aronne. ” (Numeri 20, 1-2). Molti commentatori vedono il collegamento tra questo e ciò che segue in termini di improvvisa perdita d’acqua dopo la morte di Miriam. La tradizione narra di un pozzo miracoloso che accompagnò gli Israeliti durante la vita di Miriam nei suoi meriti. [ Rashi, Commentario su Numeri 20, 2; Ta’anit 9a; Cantico dei Cantici Rabbah 4, 14,27.] Quando morì, l’acqua cessò.

C’è, tuttavia, un altro modo di interpretare il collegamento. Mosè perse il controllo perché sua sorella Miriam era appena morta. Era in lutto per la sorella maggiore. È difficile perdere un genitore, ma per certi versi è ancora più difficile perdere un fratello o una sorella. Sono la tua generazione. Senti l’Angelo della Morte avvicinarsi improvvisamente. Ti trovi di fronte alla tua mortalità.

Miriam era più di una sorella per Mosè. Fu lei, ancora bambina, a seguire il percorso della cesta di vimini che trasportava il suo fratellino mentre scivolava lungo il Nilo. Ebbe il coraggio e l’ingegno di avvicinare la figlia del faraone e di suggerirle di assumere una nutrice ebrea per il bambino, assicurandosi così che Mosè crescesse conoscendo la sua famiglia, il suo popolo e la sua identità.

In un passaggio davvero notevole, i Saggi raccontano che Miriam convinse suo padre Amram, il principale studioso della sua generazione, ad annullare il suo decreto che imponeva ai mariti ebrei di divorziare dalle mogli e di non avere più figli, perché c’era una probabilità del 50% che qualsiasi bambino nato venisse ucciso. “Il tuo decreto“, disse Miriam, “è peggiore di quello del Faraone. Lui ha decretato solo contro i maschi, il tuo si applica anche alle femmine. Lui intende privare i figli della vita in questo mondo; tu negheresti loro persino la vita nel Mondo a venire“. [Midrash Lekach Tov su Esodo 2,1] Amram ammise la sua logica effettivamente convincente. Mariti e mogli furono riuniti. Yocheved rimase incinta e nacque Mosè. Si noti che questo Midrash, narrato dai Saggi, implica inequivocabilmente che una bambina di sei anni avesse più fede e saggezza del principale rabbino di quella generazione!

Mosè sapeva sicuramente quanto doveva alla sorella maggiore. Secondo il Midrash, senza di lei non sarebbe nato. Secondo il senso letterale del testo, non sarebbe cresciuto sapendo chi fossero i suoi veri genitori e a quale popolo appartenesse. Sebbene fossero stati separati durante gli anni di esilio a Midian, al suo ritorno, Miriam lo aveva accompagnato per tutta la sua missione. Aveva guidato le donne nel canto al Mar Rosso. L’unico episodio che sembra metterla in una luce negativa è stato quando “cominciò a parlare contro Mosè a causa della sua moglie etiope” (Numeri 12,1), per il quale fu punita con la lebbra e fu interpretato in modo più positivo dai Saggi. Dissero che criticava Mosè per aver interrotto il rapporto coniugale con la moglie Zippora. Lo aveva fatto perché aveva bisogno di essere pronto a ricevere la comunicazione divina in qualsiasi momento. Miriam percepì la difficile situazione e il senso di abbandono di Zippora. Oltre a ciò, anche lei e Aaronne avevano ricevuto la comunicazione divina, ma non era stato loro imposto il celibato. Forse si era sbagliata, suggerirono i Saggi, ma non per cattiveria. Non parlava per gelosia nei confronti del fratello, ma per compassione nei confronti della cognata.

Quindi, non fu semplicemente la richiesta d’acqua da parte degli Israeliti a far perdere a Mosè il controllo delle proprie emozioni, ma piuttosto il suo profondo dolore. Gli Israeliti potevano aver perso la loro acqua, ma Mosè aveva perso sua sorella, che lo aveva accudito da bambino, guidato il suo sviluppo, lo aveva sostenuto nel corso degli anni e lo aveva aiutato a portare il peso della leadership nel suo ruolo di guida delle donne.

È un momento che ci ricorda le parole del libro dei Giudici, rivolte dal capo dello staff d’Israele, Barak, alla sua giudice e guida, Debora: “Se vieni con me, andrò; ma se non vieni con me, non potrò andare” (Giudici 4, 8). Il rapporto tra Barak e Debora era molto meno vicino rispetto a quello tra Mosè e Miriam, eppure Barak riconobbe la sua dipendenza da una donna saggia e coraggiosa. Mosè avrebbe potuto provare meno sentimenti?

Il lutto ci rende profondamente vulnerabili. Nel mezzo della perdita possiamo trovare difficile controllare le nostre emozioni. Commettiamo errori. Agiamo in modo avventato. Soffriamo di una momentanea mancanza di giudizio. Questi sono sintomi comuni anche per esseri umani comuni come noi. Nel caso di Mosè, tuttavia, c’era un fattore aggiuntivo. Era un profeta, e il dolore può occludere o eclissare lo spirito profetico. Maimonide risponde alla nota domanda sul perché Giacobbe, un profeta, non sapesse che suo figlio Giuseppe fosse ancora vivo, con la risposta più semplice possibile: il dolore bandisce la profezia. Per ventidue anni, in lutto per la scomparsa del figlio, Giacobbe non poté ricevere la parola divina. [Maimonide, Shemoneh Perakim, cap. 7] Mosè, il più grande di tutti i profeti, rimase in contatto con Dio. Dopotutto, fu Dio a dirgli di “parlare alla roccia“. Ma in qualche modo il messaggio non penetrò completamente nella sua coscienza. Questo fu l’effetto del dolore.

Quindi i dettagli sono, in realtà, secondari rispetto al dramma umano che si è svolto quel giorno. Sì, Mosè fece cose che non avrebbe potuto fare, che non avrebbe dovuto fare. Colpì la roccia, disse “noi” invece di “Dio” e perse la pazienza con il popolo. La vera storia, però, riguarda Mosè, l’essere umano in preda al dolore, vulnerabile, esposto, intrappolato in un vortice di emozioni, improvvisamente privo della presenza fraterna che era stata la nota di fondo più importante della sua vita. Miriam era stata la bambina precocemente saggia e coraggiosa che aveva preso il controllo della situazione quando la vita del suo fratellino di tre mesi era in bilico, imperterrita sia da una principessa egiziana che da un padre rabbino. Aveva guidato le donne israelite nel canto e simpatizzava con la cognata quando vide il prezzo pagato per essere la moglie di un capo. Il Midrash parla di lei come della donna per merito della quale il popolo ebbe acqua in una terra arida. Nell’angoscia di Mosè presso la roccia, percepiamo la perdita della sorella maggiore, senza la quale si sentiva solo e abbandonato.

La storia del momento in cui Mosè perse la fiducia e la calma, in definitiva, riguarda meno la leadership e la crisi, o un bastone e una roccia, che una grande donna ebrea, Miriam, apprezzata pienamente solo quando non c’era più.

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