Pensieri da Israele

 In News Italia e Israele

Riceviamo da  Nicoletta di Bernardo veronese  ex-allieva di Riccardo Mauroner e dottoranda in biologia del cancro al Weizmann Institute di Rehovot, le sue riflessioni ed esperienze in questi mesi in Israele e volentieri le condividiamo nel nostro sito.

Grazie Nicoletta

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22/03/2024 – PURIM

Purim è forse la festa ebraica che sento meno, probabilmente perché somiglia molto al carnevale. Questo non mi ha comunque impedito di godermi i dolci tipici, le oznei Haman (letteralmente le “orecchie di Haman”) e mentre scoprivo quanto siano buone quelle ai semi di papavero, un pensiero ha attraversato la mia mente: “Si può fare!”

Non c’è inverno a cui non segua la primavera, è ciò che mi hanno detto dei grandi fiori arancioni un giorno che stavo tornando verso casa al crepuscolo e il chiasso delle preoccupazioni nella mia mente è stato interrotto quando ho alzato per caso la testa e li ho visti. Da quanto tempo erano lì? Perché non li ho notati prima?

Si può fare. Purim è la festa istituita da Ester per ricordare la vittoria su chi voleva sterminare gli Ebrei; una mia amica nelle prime settimane di guerra mi ha detto: “Sai, nella cultura ebraica diciamo che c’è un Haman da cui veniamo liberati in ogni generazione”.  Anche la minaccia più grande può essere abbattuta e non solo, si può festeggiare. Come?

Me lo domando da quasi sei mesi e ancora non ho trovato la risposta, al massimo ho messo dei punti di sutura ma non so quanto reggeranno, però si può fare.

E se vi steste chiedendo come possa anche solo esserci aria di festa con tutto quello che sta succedendo a poche ore di macchina da dove vivo, penso che parte della risposta sia questa: non siamo indifferenti, è un disperato bisogno di normalità, perché se ci si ferma a pensare, non si dorme la notte.

Sono parole mie, non ho l’arroganza di rappresentare un’intera nazione (come potrebbe farlo una sola persona, sia essa un’ospite in casa d’altri, un cittadino o un politico?), ma penso che siano abbastanza condivise. E c’è e ci sarà il tempo per le domande scomode (per usare un eufemismo), ma adesso è il momento di Purim.

La guerra ti insegna a rivalutare il tempo e a dare a ogni istante il suo valore.

Si può fare. Non so come e sto cercando la via d’uscita, ma per quanto sia difficile, con l’aiuto di Dio posso determinare cosa sono e sarò durante e dopo questa guerra. Possiamo decidere come emergere dalle nostre ferite.

C’è una frase del libro di Ester che è tornata più volte alla mia mente in questi mesi: “E se fossi nata proprio per un tempo come questo?”

“Sul serio? Io vorrei solo scappare, tornare a quando ero bambina…”

Risponde Tolkien, un altro che non è solo sopravvissuto alla guerra, l’ha sconfitta attraverso i suoi libri: “Non puoi scegliere il tempo in cui vivi, ma puoi decidere coma abitarlo, cosa farne.”

Che cosa sto facendo in un tempo come questo? Tu cosa stai facendo?

22/04/24 – PESACH

Tra qualche ora dovrei raggiungere la mia famiglia proprio mentre comincia Pesach, la Pasqua ebraica.

Qualcuno una settimana fa, dopo esserci chieste a vicenda come stessimo dopo l’attacco dell’Iran, al mio timore di non poter partire mi ha detto: “Tranquilla, nessuno comincia Laila Pesach senza di te. La tua famiglia ti aspetta”.

Non sarà così per tutti.

Ho imparato un’altra tradizione proprio su Pesach in questi giorni: la sera del Seder, la cena che commemora l’uscita dall’Egitto, gli Ebrei intingono il dito nei calici di vino e ne rimuovono delle gocce mentre ricordano le dieci piaghe. Una delle spiegazioni dietro questo gesto è diminuire la gioia: “Quando il tuo nemico cade, non ti rallegrare; quando è rovesciato, il tuo cuore non ne gioisca” (Proverbi 24:17).

Una goccia per le famiglie degli ostaggi e il loro dolore.

Una per tutte le sedie che resteranno vuote per sempre.

Una per chi è al fronte e per la preoccupazione dei loro cari.

Un’altra per chi è sfollato dal nord o dal sud e non torna a casa da mesi.

Una goccia per le macerie di Gaza e per quelle che ci portiamo dentro.

E dato che il libro dell’Esodo parla di una storia di liberazione spirituale, psicologica e poi fisica: “… liberaci dal Male”.

Quello che ci hanno inflitto, che hanno cercato di seminare in noi… e da quello che abbiamo lasciato o potremmo lasciare crescere. Liberaci dal Male!

 

INIZIO MAGGIO 2024 – B’ezrat Hashem, Ham Israel chai!

Ho atteso con trepidazione le vacanze di Pesach a casa con la mia famiglia dopo cinque mesi in Israele, pur avendo un tarlo in mente: “Come risponderò alla domanda: ‘Come stai? Che si dice lì?’”

Si possono sintetizzare sette mesi di guerra in poche frasi?

“Meglio” sarebbe stata una risposta veritiera ma parziale. Con mia sorpresa e sollievo, quando è arrivato il momento, non ho dovuto pensarci troppo: “Siamo ancora in piedi. Stanchi, feriti, ma in piedi”.

La verità è che la parola “complessità” non è mai stata così reale, specie in un Paese ricco e variegato come Israele – “Due ebrei, tre sinagoghe”, non si dice così?

Ho sempre pensato di dovermi prima avvicinare per capire, che dalla sponda del Mediterraneo che ho chiamato casa sin da piccola sfuggissero i dettagli. Poi sono venuta di persona e anche se vedere e comprendere tutto il mosaico è impossibile, ho scorto qualche dettaglio in più, mentre imparavo e sceglievo di chiamare casa anche questa parte del Mediterraneo. E dispiace vedere che tanta complessità, per quanto a volte sia quasi contraddittoria, non venga percepita da chi racchiude il mondo in banali contrapposizioni tra assoluti.

Eppure non è così, a partire dal mio campus: studio con ragazzi che hanno nonni scappati dalla Shoah e radici nel Medio Oriente oppure parenti che ricordano l’amicizia di Teheran prima degli Ayatollah; ebrei sefarditi, mizrahi e ashkenaziti, che esprimono e vivono ciascuno una sfumatura diversa della propria cultura.

Ho anche incontrato la Storia in ragazze scappate dall’Ucraina e dalla Russia grazie all’aliyah; giovani turchi e arabi, palestinesi e israeliani, provenienti dalla Galilea o da Abu Gosh, vicino Gerusalemme.

Non vuol dire che il mosaico sia perfetto; anzi, dal mio umile punto di vista di ospite penso che sia ancora in evoluzione e migliorabile.

Al Weizmann Institute riusciamo ancora a lavorare abbastanza serenamente (non sono sicura che sia così per le altre università, che potrebbero fronteggiare dei tagli ai fondi) e non respiriamo la tensione degli atenei americani (anche se gli ospiti e i conferenzieri internazionali sono nettamente diminuiti), però avvertiamo la pressione della guerra. Ho letto la difficoltà di vivere una doppia identità negli occhi di una mia amica araba (una montagna di affetto sotto una nuvola di ricci) e conosco di prima mano la preoccupazione per i miei amici richiamati nell’esercito e le loro famiglie. Tra poche ore comincerà la settimana legata alla Memoria e penso che molti tra noi assoceranno per qualche istante le sirene commemorative agli allarmi dei missili.

La guerra è una presenza scomoda e costante: in pausa pranzo tra colleghi ci scambiamo idee e pareri; parliamo di quello che succederà quasi sicuramente a breve al confine con il Libano e la Siria, del rapporto con gli Stati Uniti (purtroppo l’Europa ha una rilevanza minima), degli ostaggi, delle proteste, del dinamico universo politico israeliano e di quanto siamo stanchi.

Ho imparato una parola ebraica da tutto questo: “broq”, perché quasi sempre sembra di essere intrappolati in un pantano senza via d’uscita. Sono stati sette mesi estenuanti e il 7 ottobre è un ricordo fin troppo vivo: anche se da fuori non viene percepito, Israele sta vivendo e cercando di capire come affrontare il lutto del trauma nazionale. Ma siamo ancora qui!

Sette mesi fa non avrei pensato che sarebbe stato possibile, ma questo popolo ha già attraversato la Storia in passato e ho fiducia che potrà farlo di nuovo.

Stanco, ferito, ma ancora in piedi per cantare e danzare un’altra volta.

 

B’ezrat Hashem, Ham Israel chai!

Shalom!
Un abbraccio da Rehovot a tutta la comunità di Verona e agli Ebrei Italiani!
Ham Israel chai! 🇮🇱

Nicoletta Di Bernardo

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