La graphic novel Maus, di Art Spiegelman

 In consigli di lettura
A cura di Luca De Biasio
Mi capita a volte di pensare a quanto stia diventando di anno in anno più difficile suscitare un vivo interesse dei giovani nei terribili accadimenti della seconda guerra mondiale.

Il racconto può trarre sempre meno forza dalle ormai rare testimonianze dirette, e non sempre le testimonianze indirette possono risultare incisive e vibranti come potevano essere i resoconti dei nostri padri o dei nostri nonni.

Non per questo si deve rinunciare a ricordare e a raccontare, approfittando anche di modalità narrative non consuete per la specifica tematica.

Qualche tempo fa, ci fu qualche giorno di fermento in seguito all’infelice scelta di Zerocalcare di non presenziare a un noto festival fumettistico che godeva del patrocinio dell’ambasciata israeliana; nell’occasione, alcune  trasmissioni radiofoniche proponevano riflessioni sull’impatto del fumetto nell’opinione pubblica e – soprattutto- davano l’occasione di scoprire alcune interessanti “graphic novel” delle quali io non sapevo nulla, ma che hanno ricevuto negli anni apprezzamenti dal pubblico e dalla critica.

In particolare ho potuto conoscere un romanzo a fumetti della seconda metà degli anni ottanta che ha vinto il Pulitzer (categoria Special Awards and Citations) nel 1992: mi riferisco a Maus, di Art Spiegelman.

Un racconto di vite che attraversano la Shoah si sviluppa nella narrazione di un padre al figlio: nei suoi ricordi, l’orrore – che sembra inevitabile e nello stesso tempo così scontato, è combattuto da un grande attaccamento alla vita, raccontato in tanti piccoli episodi quotidiani che rappresentano una traccia di piccole luci attraverso lo sterminato deserto buio. La descrizione dei fatti è terribile e cruda ed appare eroico il quotidiano attaccamento alla vita del protagonista.

Sull’opera, ci sono state in passato alcune polemiche, anche per la scelta non banale di rappresentare i personaggi in forma di animali: gli ebrei come topi, i nazisti come gatti e i polacchi come maiali;  le scelte sono state ben spiegate nel corso dei decenni e ciascuno potrà farsi una propria idea, senza che venga diminuito il valore della narrazione. Di recente una contea del Tennessee ne ha vietato l’uso alle scuole fino alla classe che corrisponde alla nostra terza media per il linguaggio ritenuto scurrile e per alcune scene di nudo (nello specifico riferite a prigionieri denudati).

Concludendo, anche la forma del fumetto, che può sembrare poco consona per temi violenti e dolorosi come la Shoah, in questo caso è invece una preziosa occasione per tornare a riflettere, anche insieme ai nostri ragazzi che trarranno vantaggio dalla loro familiarità con questo mezzo.

Il volume si fatica a trovare in edizione originale, ma è ristampato in italiano da Einaudi (prestare attenzione che l’edizione comprenda – anche rilegati in uno – i due volumi di cui si compone la storia)

Sul retro di copertina si trova scritto: La storia di una famiglia ebraica tra gli anni del dopoguerra e il presente, fra la Germania nazista e gli Stati Uniti. Un padre, scampato all’Olocausto, una madre che non c’è più da troppo tempo e un figlio che fa il cartoonist e cerca di trovare un ponte che lo leghi alla vicenda indicibile del padre e gli permetta di ristabilire un rapporto con il genitore anziano. Una storia familiare sullo sfondo della più immane tragedia del Novecento. Raccontato nella forma del fumetto dove gli ebrei sono topi e i nazisti gatti.

Art Spiegelman: Itzhak Avraham ben Zeev Spiegelman è nato a Stoccolma nel 1948, ma già nel 1951 la sua famiglia, di origine polacca, si è trasferita a New York.
Nel 1962 ha venduto al «Long Island Post» il suo primo disegno, l’anno dopo ha creato fumetti come Garbage Pal Kids e Wacky Packages.
Nel 1980, sulla rivista «Raw» da lui stesso fondata, è uscito il primo capitolo del suo capolavoro, Maus: la storia (autobiografica) di una famiglia ebrea internata in un lager, raccolta in volume nel 1986, gli è valsa nel 1991 il premio Pulitzer. Suoi disegni e fumetti sono apparsi su numerosi quotidiani e riviste, dal «New York Times» al «Village Voice» e al «New Yorker», e sono stati esposti in musei e gallerie negli Stati Uniti e all’estero.

 

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