Un leader è un padre “nutrice”? – Parashat Beha’alotcha

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rav Shmuel Rabinowitz, Rabbino del Kotel e luoghi sacri in Israele

tradotto ed adattato da David Malamut

Fu il momento più basso della vita di Mosè. Dopo il dramma del Sinai, l’Apocalisse, il Vitello d’Oro, il perdono, la costruzione del Tabernacolo e i codici di purezza e santità lunghi quanto un libro, l’unica cosa a cui la gente riesce a pensare è il cibo.

<<Ci tornano alla memoria i pesci che mangiavamo in Egitto, senza spesa; i cocomeri [angurie], i poponi [melloni], ed il porro, e le cipolle, e gli agli. Ed ora l’anima nostra è secca: non c’è nulla: unicamente alla manna sono rivolti i nostri occhi [cioè le nostre speranze].>> (Numeri 11, 5-6)

Era sufficiente a far disperare chiunque, persino un Mosè. Ma le parole che pronuncia sono sconvolgenti. Dice a Dio:

<<E Mosè disse al Signore: Perché non ho io incontrato grazia, appo te? Perché (dico) facesti questo male al tuo servo, d’imporre su di me il peso di tutto questo popolo? Ho io portato nel ventre tutto questo popolo? l’ho io generato? che tu mi dici: «Portalo in seno, come il balio porta il poppante» (sino a che io l’abbia collocato) su quella terra, che giurasti a’suoi padri. Onde avrei io tanta carne, da dare a tutto questo popolo? mentr’essi mi piangono attorno, con dire: Danne carne, che mangiamo. Non posso io, così solo, sostenere (il peso di) tutto questo popolo, perocchè è troppo grave per me. E se tu pensi di segnitar meco così, fammi deh! morire, se ho incontrato grazia appo te; ond’io non abbia a stare a vedere il mio male [cioè ond’io non mi trovi in una continua infelicità irreparabile, usando le lamentazioni del popolo, senza potervi porre rimedio];>> (Numeri 11, 11-15)

Queste parole meritano la massima attenzione. Inevitabilmente la nostra attenzione si concentra sull’ultima osservazione, il desiderio di Mosè di morire. Ma in realtà non è questa la parte più interessante del suo discorso. Mosè non fu l’unico leader ebreo a pregare di morire. Lo stesso fece Elia. Lo stesso fece Geremia. Lo stesso fece Giona. La leadership è difficile; guidare il popolo ebraico è quasi impossibile. Questa è una vecchia storia, non certo edificante.

Il vero interesse sta altrove, quando Mosè dice: “Perché mi dici di portarli in braccio, come una nutrice porta un bambino piccolo?”. Ma Dio non ha mai usato quelle parole. Non ha mai minimamente insinuato una cosa del genere. Dio chiese a Mosè di guidare, ma non gli disse come farlo. Disse a Mosè cosa fare, ma non discusse del suo stile di leadership.

L’uomo che diede a Mosè la sua prima lezione di leadership fu suo suocero Ietro, che lo avvertì del rischio di quello stesso esaurimento che sta vivendo ora.

<<Ed il suocero di Mosè gli disse: Non è buona la maniera che tu tieni. Ti stancherai, e tu e questo popolo che ti sta appresso; poiché la cosa è troppo pesante per te, non puoi eseguirla tu solo>> (Esodo 18, 17-18)

Poi gli disse di delegare e condividere il suo fardello con un gruppo di leader, proprio come Dio sta per fare nella nostra Parasha.

È interessante notare che l’esaurimento di Mosè avviene subito dopo aver letto, alla fine del capitolo precedente, della partenza di Yitro. Qualcosa di molto simile accade più avanti nella Parasha di Chukat (Numeri 20). Prima leggiamo della morte di Miriam. Poi segue immediatamente la scena a Meriva, quando il popolo chiede acqua e Mosè perde la pazienza e colpisce la roccia, il gesto che gli costa la possibilità di guidare il popolo attraverso il Giordano verso la Terra Promessa. Sembra che, a modo loro, Yitro e Miriam fossero un sostegno emotivo essenziale per Mosè. Quando erano lì, lui reagiva. Quando non lo erano, perdeva la calma. I leader hanno bisogno di anime gemelle, persone che li sollevino e diano loro la forza di andare avanti. Nessuno può guidare da solo.

Ma tornando al discorso di Mosè a Dio, la Torah potrebbe qui suggerire che il modo in cui Mosè concepiva il ruolo di leader fosse esso stesso parte del problema. “Ho concepito io tutto questo popolo? Li ho partoriti io? Perché mi dici di portarli in braccio, come una nutrice porta un neonato?“. Questo è il linguaggio del leader-come-genitore, la teoria del “Grande Uomo” della leadership.

Basandosi, e andando oltre, sulle teorie di Gustave le Bon e sulla “mente di gruppo“, Sigmund Freud sosteneva che le folle diventano pericolose quando un certo tipo di leader sale al potere. [Sigmund Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, parte III] Un leader di questo tipo, spesso altamente carismatico, risolve le tensioni all’interno del gruppo promettendo apparentemente soluzioni a tutti i problemi. È forte. È persuasivo. È chiaro. Offre un’analisi semplice delle cause della sofferenza delle persone. Individua i nemici, concentra le energie e fa sentire le persone complete, intere, parte di qualcosa di grande. “Lascia fare a me“, sembra dire. “Tutto quello che devi fare è seguire e obbedire“.

Mosè non è mai stato quel tipo di leader. Diceva di sé: “Non sono un uomo di parole“. Non era particolarmente vicino al popolo. Aronne lo era. Forse anche Miriam lo era. Caleb aveva il potere di calmare il popolo, almeno temporaneamente. Mosè non aveva né il dono né il desiderio di influenzare le folle, risolvere le complessità, attrarre un seguito di massa o guadagnare popolarità. Non era quello il tipo di leader di cui gli Israeliti avevano bisogno, ed è per questo che Dio scelse Mosè, non un uomo in cerca di potere, ma uno con un ardente senso di giustizia e una passione per la libertà.

Mosè, però, aveva interpretato in maniera errata la faccenda del “leader”. Infatti, sembra aver pensato che il leader dovesse fare tutto: doveva essere il padre, la madre e la nutrice del popolo. Doveva essere colui che faceva, colui che risolveva i problemi, onnisciente e onnicompetente. Se qualcosa avesse dovuto essere fatto, sarebbe spettato al leader, rivolgendosi a Dio e chiedendo il Suo aiuto, a farlo.

Il problema è, se il capo è un genitore, i seguaci rimangono bambini. Sono totalmente dipendenti da lui. Non sviluppano competenze proprie. Non acquisiscono un senso di responsabilità o la fiducia in sé stessi che deriva dall’esercitarlo. Così, quando Mosè non è lì, come quando è stato sulla montagna per molto tempo e non sappiamo cosa gli sia successo, il popolo va nel panico e costruisce un vitello d’oro. Ecco perché Dio dice a Mosè di radunare una squadra di settanta capi per condividere il peso con lui. Non provate nemmeno a fare tutto da soli.

La teoria del “Grande Uomo” come leader perseguita la storia ebraica come un incubo ricorrente. Ai tempi del profeta Samuele il popolo credeva che tutti i suoi problemi sarebbero stati risolti se avessero nominato un re “come tutte le altre nazioni“. Invano, Samuele li avverte che questo non avrebbe fatto altro che peggiorare i loro problemi. Saul ha l’aspetto giusto, bello, eretto, “più alto di chiunque altro di una testa” (Samuele I, cap. 9), ma manca di forza di carattere. Davide commette adulterio. Salomone, dotato di saggezza, viene sedotto dalle sue mogli e condotto alla follia. Il regno si divide. Solo pochi re successivi sono all’altezza della sfida morale e spirituale di combinare la fede in Dio con una politica di realismo e virtù civica.

Durante il periodo del Secondo Tempio, il successo dei Maccabei fu drammatico ma di breve durata. Gli stessi re Asmonei si ellenizzarono. La carica di Sommo Sacerdote venne politicizzata. Nessuno riuscì a contenere le crescenti fratture all’interno della nazione. Dopo aver sconfitto i Greci, la nazione cadde nelle mani dei Romani. Sessant’anni dopo, Rabbi Akiva identificò Bar Kochbacome un altro “grande uomo” sullo stampo di Giuda il Maccabeo, e il risultato fu la peggiore tragedia nella storia ebraica fino all’Olocausto.

L’ebraismo si basa sulla responsabilità diffusa, sul dare valore a ogni singolo individuo, sulla costruzione di team coesi sulla base di una visione condivisa, sull’educare le persone al loro pieno potenziale e sul valorizzare la discussione onesta e la dignità del dissenso. Questo è il tipo di cultura che i rabbini hanno inculcato durante i secoli di dispersione. È così che i pionieri hanno costruito la terra e lo stato di Israele in epoca moderna. È la visione che Mosè ha articolato nell’ultimo mese della sua vita nel libro del Devarim (Deuteronomio).

Ciò richiede leader che ispirino gli altri con la loro visione, delegando, responsabilizzando, guidando, incoraggiando e creando spazio. Questo è ciò che Dio stava suggerendo a Mosè quando gli disse di prendere settanta anziani e di farli stare con lui nella Tenda del Convegno. Poi:

<<Ed io scenderò, e parlerò teco là, e gl’investirò di quello stesso spirito, di cui tu sei investito; ed eglino sosterranno con te il peso del popolo, e non lo sosterrai tu solo.>> (Numeri 11, 17)

Dio stava dicendo a Mosè che i grandi leader non creano seguaci; creano leader. Condividono la loro ispirazione. Donano il loro spirito agli altri. Non vedono le persone che guidano come bambini che hanno bisogno di un padre, una madre o una bambinaia, ma come adulti che hanno bisogno di essere educati ad assumersi la responsabilità individuale e collettiva del proprio futuro.

Le persone diventano ciò che il loro leader dà loro lo spazio per diventare. Quando quello spazio è ampio, crescono verso la grandezza.

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