“Santità”, “Astinenza” e ciò che sta nel mezzo

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

 Parashat Acharei Mot – Kedoshim

di Rav Shmuel Rabinowitz, Rabbino del Kotel e luoghi sacri in Israele

tradotto ed adattato da David Malamut

 

Il primo comandamento della Parashat Kedoshim, che è stato dichiarato davanti all’intera nazione per la sua grande importanza, è:

<<…Santi dovete essere…>> (Levitico 19, 2)

D-o esige che il popolo d’Israele sia “santo“. Ma cosa significa veramente questa affermazione? Siamo abituati a comandamenti che operano entro i confini del lecito e del proibito. Ma cosa dovremmo fare effettivamente per essere santi?

Un malinteso comune è quello di intendere il concetto di santità in senso negativo, ovvero che santità significhi astenersi da ciò che è permesso agli altri. Perché questo è un errore? Perché ciò che è proibito è una trasgressione, e ciò che è obbligatorio è un comandamento. Quindi, dove si colloca la santità nella nostra vita quotidiana?

Il Rambam, Maimonide, la più grande autorità halachica di tutte le generazioni, rifiuta l’idea che la santità richieda il ritiro dal mondo, l’abnegazione e la separazione dalla società. Nelle sue note parole, Dio non ha creato l’uomo per staccarsi dall’umanità e vivere isolato. Egli lo sostiene con il versetto:

<<…l’Iddio, che ha formata la terra, e l’ha fatta, e l’ha stabilita, e non l’ha creata per restar vacua, anzi l’ha formata per essere abitata… >> (Isaia 45, 18)

L’uso scorretto del termine santità è uno dei maggiori ostacoli per coloro che non hanno compreso correttamente lo scopo della creazione. Ad esempio: nessuno è esente dal comandamento del matrimonio, nonostante la connotazione potenzialmente negativa e materialistica che può avere. Secondo l’ebraismo, la vita matrimoniale non è l’opposto della santità né in conflitto con l’astinenza. Al contrario, quando un uomo ebreo si sposa, dice alla moglie: “Con questo sei santificata per me“, perché una vita di rispetto reciproco e del dare, impartire, fornire è la vera santità.

Mentre nel cristianesimo i sacerdoti cattolici e ortodossi sono obbligati a rimanere celibi e hanno il divieto di sposarsi, nell’ebraismo una vita di celibato e astinenza è l’opposto della santità.

Quando una persona adempie allo scopo della creazione con la giusta intenzione e quando le sue azioni riflettono sia i suoi obblighi verso il Creatore che verso gli altri (gli ambiti di “bein adam laMakom” (tra la persona e il Signore) e “bein adam le’chavero” (tra la persona e suo amico)), questa è la santità. Come scrive il Rambam:

Chi segue questo cammino per tutti i suoi giorni serve Dio incessantemente – anche quando è impegnato negli affari, anche durante l’intimità, perché il suo intento in tutto ciò che fa è quello di soddisfare i propri bisogni affinché il suo corpo sia sano e in grado di servire Dio… A questo proposito i Saggi comandarono: “Che tutte le tue azioni siano per amore del Cielo“. E come disse Salomone nella sua saggezza: “In tutte le tue vie riconosciLo”.” (Rambam, Hilchot De’ot 3, 2–3)

Quando una persona si guadagna da vivere onestamente per provvedere a sé stessa e alla propria famiglia, benedice e ringrazia il Creatore per ogni bene, questa è santità nella sua forma più pura. Secondo la Kabbalah, la santità risiede solo in un cuore gioioso. Qualsiasi altro tipo di condotta è l’opposto della santità, a maggior ragione se si vive in un’astinenza che porta dolore ai propri cari e a chi gli sta intorno.

I Rabbini chassidici spesso organizzavano pasti festivi (seudot) insieme ai loro talmidim (seguaci) e, attraverso la gioia e l’elevazione spirituale, insegnavano alle masse come trasformare un atto fisico in un servizio sacro, come il servizio del Kohen nel Tempio. Da questo ideale emerse la diffusa usanza chassidica del Tish*.

I nostri Saggi affermarono che, in assenza del Sacro Tempio, la tavola di una persona funge da altare ed espia i peccati (Talmud Bavli, Menachot, Tzav). Considerate questo: non il digiuno o l’abnegazione, ma la tavola: è questo che espia. La tavola, come quella del Tempio, simboleggia il materialismo santificato. Anche all’interno del Tempio, c’era una tavola con sopra dei pani.

Sarete santi“, dice il Midrash nella nostra parsha, “potreste pensare [di poter essere] come Me; perciò dice: ‘perché io, il Signore, sono santo’ – la Mia santità è superiore alla vostra santità”. Queste parole dei nostri Saggi sembrano sconcertanti. Qualcuno potrebbe davvero immaginare di essere santo “come Lui” (come Dio)? Ma la spiegazione è che Dio sta chiarendo il tipo di santità che si aspetta da noi. Non aspirate a una separazione elevata, angelica “come la Mia”, ma vivete una santità umana, il tipo di vita per cui Io ho creato il mondo.

*Pasto festivo, ricco di discorsi su argomenti della Torah, canti di melodie niggunim e zemirot, insieme a rinfreschi vari. I chassidim lo considerano un momento di grande santità.

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