L’amore non basta – Parashat Acharei Mot – Kedoshim

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l

tradotto ed adattato da David Malamut

Il capitolo iniziale di Kedoshim contiene due dei comandamenti più potenti in assoluto: amare il prossimo e amare lo straniero. “Ama il prossimo tuo come te stesso: io sono il Signore” recita il primo. “Quando uno straniero verrà a vivere nella vostra terra, non lo maltratterete” recita il secondo, e continua: “Trattate lo straniero come trattate il vostro nativo. Amatelo come voi stessi, perché anche voi foste stranieri in Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Levitico 19, 33-34). [Si noti che alcuni interpretano questi due versetti come riferiti specificamente a un ger tzedek, cioè a un convertito all’ebraismo. Questo, tuttavia, significa perdere di vista il punto del comandamento, che è: non permettere alle differenze etniche (cioè, tra un ebreo di nascita e un convertito) di influenzare le tue emozioni. L’ebraismo deve essere indifferente a razza e colore.]

Il primo è spesso chiamato la “regola d’oro” ed è ritenuto universale in tutte le culture. Questo è un errore. La regola d’oro è diversa. Nella sua formulazione positiva afferma: “Agisci verso gli altri come vorresti che agissero verso di te“, o nella sua formulazione negativa, data da Hillel, “Ciò che è odioso, detestabile a te, non farlo al tuo prossimo“. Queste regole non riguardano l’amore. Riguardano la giustizia, o più precisamente, ciò che gli psicologi evoluzionisti chiamano altruismo reciproco. La Torah non dice: “Sii gentile o premuroso con il tuo prossimo, perché vorresti che lui fosse gentile o premuroso con te”. Dice: “Ama il tuo prossimo”. Questo è qualcosa di diverso e molto più forte.

Il secondo comandamento è ancora più radicale. La maggior parte delle persone, nella maggior parte delle società e in ogni epoca, ha temuto, odiato e spesso fatto del male, nociuto lo straniero. Esiste una parola per questo: xenofobia. Quante volte avete sentito il termine opposto: xenofilia? Immagino, mai. Di solito le persone non amano gli stranieri. Ecco perché, quasi sempre quando la Torah pronuncia questo comandamento, secondo i Saggi compare ben 36 volte, aggiunge una spiegazione: “perché eravate stranieri in Egitto“. Non conosco nessun’altra nazione che sia nata come nazione in schiavitù ed esilio. Sappiamo cosa si prova a essere una minoranza vulnerabile. Ecco perché l’amore per lo straniero è così centrale nell’ebraismo e così marginale nella maggior parte degli altri sistemi etici. [Se fosse esistito in Europa, non ci sarebbero stati mille anni di persecuzione degli ebrei, seguiti dalla nascita dell’antisemitismo razziale e infine dalla Shoah.] 

Ma anche qui la Torah non usa la parola “giustizia“. C’è un comandamento di giustizia verso gli stranieri, ma si tratta di una legge diversa: “Non sopraffare il forestiero, e nol molestare; ” (Esodo 22, 20). Qui la Torah non parla di giustizia, ma di amore. Questi due comandamenti definiscono l’ebraismo come una religione d’amore, non solo per Dio (“con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze“), ma anche per l’umanità. Questa era ed è un’idea che ha cambiato il mondo.

Ma ciò che richiede una profonda riflessione è il luogo in cui compaiono questi comandamenti. Lo fanno nella Parasha di Kedoshim, in quello che, agli occhi dei contemporanei, deve sembrare uno dei passi più strani della Torah.

Levitico 19 presenta leggi affiancate di tipo apparentemente molto diverso. Alcune appartengono alla vita morale: non spettegolare, non odiare, non vendicarsi, non serbare rancore. Alcune riguardano la giustizia sociale: lasciare parte del raccolto per i poveri; non pervertire la giustizia; non trattenere i salari; non usare pesi e misure falsi. Altre hanno un significato completamente diverso: non incrociare il bestiame; non seminare un campo con semi misti; non indossare un abito di lana e lino misti; non mangiare i frutti dei primi tre anni; non mangiare sangue; non praticare la divinazione; non lacerarti.

A prima vista, queste leggi non hanno nulla a che fare l’una con l’altra: alcune riguardano la coscienza, altre la politica e l’economia, altre ancora la purezza e i tabù. Chiaramente, però, la Torah ci dice il contrario. Hanno qualcosa in comune. Riguardano tutte ordine, limiti, confini. Ci dicono che la realtà ha una certa struttura di fondo la cui integrità deve essere onorata. Se si odia o si cerca vendetta, si distruggono le relazioni. Se si commette un’ingiustizia, si mina la fiducia da cui dipende la società. Se non si rispetta l’integrità della natura (diverse specie, semi e così via), si compie il primo passo lungo un sentiero che porta al disastro ambientale.

C’è un ordine nell’universo, in parte morale, in parte politico, in parte ecologico. Quando quell’ordine viene violato, alla fine si verifica il caos. Quando quell’ordine viene osservato e preservato, diventiamo co-creatori della sacra armonia e della diversità integrata che la Torah chiama “santo”.

Perché allora proprio in questo capitolo compaiono i due grandi comandamenti: l’amore per il prossimo e per lo straniero? La risposta è profonda e tutt’altro che ovvia. Perché è qui che l’amore appartiene: in un universo ordinato.

Jordan Peterson, psicologo canadese, è recentemente diventato uno degli intellettuali pubblici più eminenti del nostro tempo. Il suo libro, “Dodici regole per la vita“, è stato un enorme best-seller in Gran Bretagna e in America. Lui ha avuto il coraggio di essere un anticonformista, sfidando le fallacie di moda nell’Occidente contemporaneo. Particolarmente significativa nel libro è la Regola numero 5: “Non permettere ai tuoi figli di fare nulla che ti faccia provare antipatia per loro“.

Il suo punto è più sottile di quanto sembri. Un numero significativo di genitori oggi, afferma, non riesce a socializzare con i propri figli. Li assecondano. Non insegnano loro delle regole. Ci sono, sostiene, ragioni complesse per questo. Alcune di queste hanno a che fare con la mancanza di attenzione. I genitori sono impegnati e non hanno tempo per il compito impegnativo di insegnare la disciplina. Altre hanno a che fare con l’influente ma fuorviante idea di Jean-Jacques Rousseau secondo cui i bambini sono naturalmente buoni e vengono resi cattivi dalla società e dalle sue regole. Quindi il modo migliore per crescere figli felici e creativi è lasciare che scelgano da soli.

In parte, però, afferma che ciò è dovuto al fatto che “i genitori moderni sono semplicemente paralizzati dalla paura di non essere più apprezzati, o addirittura amati, dai loro figli se li rimproverano per qualsiasi motivo“. Temono di rovinare il loro rapporto dicendo “No“. Temono di perdere l’amore dei loro figli.

Il risultato è che lasciano i loro figli pericolosamente impreparati a un mondo che non asseconderà i loro desideri o il loro desiderio di attenzione; un mondo che può essere duro, esigente e a volte crudele. Senza regole, abilità sociali, autocontrollo e la capacità di rimandare la gratificazione, i bambini crescono senza un apprendistato nella realtà. La sua conclusione è potente:

Regole chiare creano bambini sicuri e genitori calmi e razionali. Chiari principi di disciplina e punizione bilanciano misericordia e giustizia, in modo che lo sviluppo sociale e la maturità psicologica possano essere promossi in modo ottimale. Regole chiare e una disciplina adeguata aiutano il bambino, la famiglia e la società a stabilire, mantenere ed espandere l’ordine. Questo è tutto ciò che ci protegge dal caos.

È di questo che parla il capitolo iniziale di Kedoshim: regole chiare che creano e sostengono un ordine sociale. È lì che risiede il vero amore, non il suo sostituto sentimentale e auto-ingannevole. Senza ordine, l’amore non fa che aumentare il caos. Un amore mal riposto può portare alla negligenza dei genitori, generando figli viziati, con un senso di superiorità, destinati a una vita adulta infelice, senza successo e senza soddisfazioni.

Il libro di Peterson, il cui sottotitolo è “Un antidoto al caos“, non parla solo di bambini. Parla del caos che l’Occidente ha creato da quando i Beatles cantarono (nel 1967) “All You Need is Love“. Come psicologo clinico, Peterson ha visto il costo emotivo di una società senza un codice morale condiviso. Le persone, scrive, hanno bisogno di principi ordinatori, senza i quali c’è caos. Abbiamo bisogno di “regole, standard, valori – da soli e insieme. Abbiamo bisogno di routine e tradizione. Questo è ordine“. Troppo ordine può essere negativo, ma troppo poco può essere peggio. La vita è vissuta al meglio, dice, sulla linea di demarcazione tra loro. È lì, dice, che “troviamo il significato che giustifica la vita e la sua inevitabile sofferenza“. Forse se vivessimo correttamente, aggiunge, “potremmo sopportare la consapevolezza della nostra fragilità e mortalità, senza quel senso di vittimismo offeso che produce, prima, risentimento, poi invidia e infine desiderio di vendetta e distruzione“.

Questa è la spiegazione più acuta che abbia mai sentito per la struttura unica di Levitico 19. La sua combinazione di leggi morali, politiche, economiche e ambientali è un’affermazione suprema di un universo di ordine (creato da Dio) di cui noi siamo i custodi. Ma il capitolo non parla solo di ordine. Si tratta di umanizzare quell’ordine attraverso l’amore: l’amore per il prossimo e per lo straniero. E quando la Torah dice di non odiare, non vendicarsi e non serbare rancore, è una sorprendente anticipazione delle osservazioni di Peterson sul risentimento, l’invidia e il desiderio di vendetta e distruzione.

Da qui l’idea rivoluzionaria che abbiamo dimenticato per troppo tempo: l’amore non basta. Le relazioni hanno bisogno di regole.

Post recenti