Eternità e mortalità – Parashat Emor
di Rabbino Lord Jonathan Sacks zt”l
tradotto ed adattato da David Malamut
La nostra Parasha di questa settimana inizia con una restrizione sulle persone per le quali un Kohen può diventare tameh, termine solitamente tradotto come contaminato, impuro, cerimonialmente immondo. Un sacerdote non può toccare o trovarsi sotto lo stesso tetto di un defunto. Deve mantenersi lontano da qualsiasi contatto ravvicinato con il defunto (ad eccezione di un parente stretto, definito nella nostra Parasha come sua moglie, un genitore, un figlio, un fratello o una sorella nubile). La legge per il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote) è ancora più restrittiva. Non può permettersi di diventare cerimonialmente impuro nemmeno per un parente stretto, sebbene sia lui che un sacerdote ordinario possano farlo per una meit mitzvah, ovvero per chi non ha nessun altro che si occupi del suo funerale. In tal caso, il requisito fondamentale della dignità umana prevale sull’imperativo sacerdotale della purezza.
Queste leggi, insieme a molte altre presenti nei libri di Vayikra (Levitico) e Bamidbar (Numeri), in particolar modo il rito della Vacca Rossa, usato per purificare coloro che erano entrati in contatto con i defunti, sono effettivamente difficili da comprendere oggi. Lo erano già ai tempi dei Saggi. Rabban Yochanan ben Zakkai è famoso per aver detto ai suoi studenti: “Non è che la morte contamina né che le acque [della Giovenca Rossa] purifichino. Piuttosto, Dio dice: Ho ordinato una legge ed emanato un decreto, e non avete il permesso di trasgredirlo“. L’implicazione sembra essere che le regole non abbiano logica. Sono semplicemente comandi divini.
Queste leggi sono davvero sconcertanti. La morte contamina. Ma lo fa anche il parto (Levitico 12). Lo strano insieme di fenomeni noto come tzara’at, solitamente tradotto come lebbra, non coincide con alcuna malattia nota, poiché è una condizione che può colpire non solo una persona, ma anche gli abiti e le pareti di una casa (Levitico 13-14). Non conosciamo alcuna condizione medica a cui ciò corrisponda.
Poi, nella nostra Parasha, c’è l’esclusione dal servizio nel Santuario di un Kohen che avesse una deformità fisica, come per esempio qualcuno che fosse cieco o zoppo, avesse il naso deforme o un arto deforme, la schiena curva o fosse affetto da nanismo (Levitico 21, 16-21). Perché? Tale esclusione sembra violare il seguente principio:
<<…chè non a ciò che l’uomo guarda, (guarda il Signore); giacchè l’uomo guarda all’apparenza, mentre il Signore guarda al cuore.>> (Samuele I 16, 7)
Perché l’aspetto esteriore dovrebbe influenzare la possibilità o meno di servire come sacerdote nella casa di Dio?
Eppure, questi decreti hanno una logica di fondo. Per comprenderli, dobbiamo prima comprendere il concetto di sacro. Dio è al di là dello spazio e del tempo, eppure Dio ha creato lo spazio e il tempo, così come le entità fisiche che occupano lo spazio e il tempo. Dio è quindi “celato“. La parola ebraica per universo, olam, deriva dalla stessa radice ebraica di ne’elam, “nascosto“. Come affermano i mistici: la creazione implicava il tzimtzum, l’annullamento divino, poiché senza di esso né l’universo né noi potremmo esistere. In ogni punto, l’infinito annullerebbe il finito.
Eppure, se Dio fosse completamente e permanentemente nascosto al mondo fisico, sarebbe come se fosse assente. Da una prospettiva umana non ci sarebbe differenza tra un Dio inconoscibile e un Dio inesistente. Pertanto, Dio ha stabilito il sacro come il punto in cui l’Eterno entra nel tempo e l’Infinito entra nello spazio. Il tempo sacro è lo Shabbat. Lo spazio sacro era il Tabernacolo e, più tardi, il Tempio.
L’eternità di Dio è in netto contrasto con la nostra mortalità. Tutto ciò che vive un giorno morirà. Tutto ciò che è fisico un giorno si eroderà e cesserà di esistere. Persino il sole, e l’universo stesso, alla fine si estingueranno. Da qui l’estrema delicatezza e pericolosità del Tabernacolo o Tempio, il punto in cui Ciò-che-è-al-di-là-del-tempo-e-dello-spazio entra nel tempo e nello spazio. Come materia e antimateria, la combinazione tra il puramente spirituale e l’inequivocabilmente fisico è esplosiva e deve essere evitata. Proprio come un esperimento ad alta sensibilità dovrebbe essere condotto senza la minima contaminazione, così lo spazio sacro doveva essere mantenuto libero da condizioni che indicassero la mortalità.
Tumah non dovrebbe quindi essere considerata una “contaminazione“, come se ci fosse qualcosa di sbagliato o peccaminoso in essa. Tumah riguarda la mortalità. La morte preannuncia mortalità, ma lo fa anche la nascita. Una malattia della pelle come la tzara’at ci rende vividamente consapevoli del corpo. Lo stesso vale per un attributo fisico insolito come un arto deforme. Anche la muffa su un indumento o sul muro di una casa è sintomo di degrado fisico. Non c’è nulla di eticamente sbagliato in nessuna di queste cose, ma concentrano la nostra attenzione sul fisico e sono quindi incompatibili con lo spazio sacro del Tabernacolo, dedicato alla presenza del non fisico, l’Eterno Infinito che non muore né decade mai.
Un esempio lampante di ciò si trova all’inizio del libro di Giobbe. In una serie di colpi devastanti, Giobbe perde tutto: i suoi greggi, le sue mandrie, i suoi figli. Eppure, la sua fede rimane intatta. Satana propone quindi di sottoporre Giobbe a una prova ancora più grande, coprendogli il corpo di piaghe. [Giobbe 1-2.] La logica di questo sembra assurda. Come può una malattia della pelle essere una prova di fede più grande della perdita dei propri figli? Infatti, non lo è assolutamente. Ma ciò che il libro dice è che quando il corpo è afflitto, può essere difficile, persino impossibile, concentrarsi sulla spiritualità. Questo non ha nulla a che fare con la verità ultima e tutto a che fare con la mente umana. Come disse Maimonide, non si può dedicare la mente alla meditazione sulla verità quando si ha fame o sete, si è senza casa o si è malati. [La Guida dei Perplessi III, 27]
Lo studioso biblico James Kugel ha recentemente pubblicato un libro, Nella valle dell’ombra, sulla sua esperienza con il cancro. Quando i medici gli dissero che, con ogni probabilità, non gli restavano più di due anni di vita (per fortuna, era effettivamente guarito), descrisse l’esperienza dell’improvvisa consapevolezza dell’imminenza della morte. Disse: “la musica di sottofondo si è fermata”. Con “musica di sottofondo” intendeva la sensazione di essere parte integrante del flusso della vita. Sappiamo tutti che un giorno moriremo, ma per lo più ci sentiamo parte della vita e del tempo che continuerà per sempre (Platone descrisse il tempo come un’immagine in movimento dell’eternità). È la consapevolezza della morte che ci separa da questa sensazione, separandoci dal resto della vita come da uno schermo.
Kugel scrive anche: “La maggior parte delle persone, quando vede qualcuno devastato dalla chemioterapia, tende a mantenere le distanze“. Cita il Salmo 38,12:
“…I miei amici ed i miei compagni se ne stanno di rincontro alla mia; e i miei prossimi si fermano da lungi.”
Sebbene le reazioni fisiche alla chemioterapia siano molto diverse da quelle di una malattia della pelle o di un’anomalia corporea, tendono a generare negli altri la stessa sensazione, in parte legata al pensiero “Questo potrebbe succedere anche a me”. Ci ricordano i “mille scossoni naturali di cui la carne è erede”. [Il famoso soliloquio di William Shakespeare in Amleto, Atto III, Scena I.]
Questa è la logica, se solo “logica” fosse la parola giusta, di tumah. Non ha nulla a che fare con la razionalità e tutto con l’emozione (si ricordi l’osservazione di Pascal secondo cui “il cuore ha le sue ragioni, di cui la ragione non sa nulla“). Tumah non significa contaminazione. Significa ciò che distrae dall’eternità e dall’infinito rendendoci forzatamente consapevoli della mortalità, del fatto che siamo esseri fisici in un mondo fisico.
Ciò che il Tabernacolo rappresentava nello spazio e lo Shabbat nella dimensione del tempo era piuttosto radicale. Non era raro nel mondo antico, né in alcune religioni odierne, credere che qui sulla terra tutto sia mortale. Solo in Paradiso o nell’aldilà incontreremo l’immortalità. Ecco perché molte religioni, sia in Oriente che in Occidente, sono state ultraterrene.
Nell’ebraismo, la santità esiste in questo mondo, nonostante sia delimitato dallo spazio e dal tempo. Ma la santità, come l’antimateria, deve essere accuratamente isolata. Da qui il rigore delle leggi dello Shabbat da un lato, del Tempio e del suo sacerdozio dall’altro. Il sacro è il punto in cui cielo e terra si incontrano, dove, con intensa concentrazione e completa assenza di preoccupazioni terrene, apriamo lo spazio e il tempo alla presenza percepita di Dio che è al di là dello spazio e del tempo. È un’intimazione di eternità nel mezzo della vita, che ci permette nei nostri momenti più santi di sentirci parte di qualcosa che non muore. Il sacro è lo spazio in cui redimiamo la nostra esistenza dalla mera contingenza e sappiamo di essere custoditi tra le “braccia eterne”[ Deuteronomio 33, 27] di Dio.