Chi è il servo e chi è il padrone? – Parashat Behar

 In Dall'Ufficio Rabbinico, Parashà della Settimana

di Rav Shmuel Rabinowitz, Rabbino del Kotel e luoghi sacri in Israele

tradotto ed adattato da David Malamut

La relazione tra il popolo di Israele e Dio è illustrata nel periodo biblico attraverso diverse metafore: la relazione tra un padre e suo figlio, la relazione tra un re e il suo popolo e persino le relazioni romantiche tra un uomo e una donna. Ognuna di queste metafore appare in contesti specifici, e non a caso. Ad esempio, il Cantico dei Cantici si basa sulla metafora di una relazione romantica, descrivendo i processi storici che il popolo di Israele ha attraversato nel suo rapporto con Dio nel corso delle generazioni, per illustrare le fondamenta, le basi dell’amore e dell’alleanza che persiste in ogni situazione. Nel frattempo, quando Dio mandò Mosè dal Faraone, re d’Egitto, per ordinargli di liberare gli Israeliti dalla schiavitù, usò la metafora adatta ad una relazione tra quella di un padre e di un figlio: “Il mio figlio primogenito, Israele” – una metafora che esprime impegno, responsabilità e preoccupazione.

Tuttavia, esiste un’altra metafora usata, relativamente rara, che appare solo una volta nei cinque libri della Torah. Questa è la metafora del padrone e dei servi. Apparentemente, questa metafora soprattutto per una persona del XXI secolo, potrebbe non sembrare affatto adatta, adeguata e giustamente, pure superata. Questa metafora appare nella parasha di questa settimana, Behar, e vale la pena esaminare il motivo per cui compare specificamente in questa lettura.

Innanzitutto, si fa notare che questa metafora comparendo una sola volta nella Torah non indichi la motivazione religiosa a cui dovremmo aspirare. Dio non ha dichiarato sul monte Sinai: “Io sono il Signore, il tuo Signore”, ma ha elaborato il concetto “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto”, indicando, appunto, che “Io sono il Dio che si è preso cura di te, ti ha trattato bene e ti ha reso libero”, come affermato in alcuni passaggi prima (Esodo 19,4) : “Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato su ali di aquile e vi ho condotti a me“. La motivazione religiosa appropriata è che una persona provi gratitudine verso Dio per la gentilezza e l’abbondanza che gli ha concesso. Tuttavia, la metafora del padrone e dei servi esiste, ma in quale contesto?

La parasha di questa settimana tratta principalmente di due comandamenti: Shmita, l’anno sabbatico, e Yovel, il Giubileo. L’anno sabbatico cade nella terra d’Israele ogni settimo anno. In quell’anno specifico l’obbligo agricolo è quello di lasciare incolta la propria terra e di aprirla a tutti, sia agli uomini che agli animali. I prodotti coltivati ​​quell’anno sono considerati sacri e destinati esclusivamente al consumo. Il comandamento del Giubileo è simile all’anno Sabbatico: ogni cinquantesimo anno, l’obbligo agricolo in terra d’Israele è quello di lasciare libero la propria terra come nell’anno Sabbatico. Nell’anno del Giubileo, però, l’aspetto di uguaglianza si estende a due ulteriori ambiti.

Il primo ambito è il riscatto delle terre. Nell’antico Israele, una persona sedeva sulla terra ereditata dai suoi antenati e non la vendeva a un’altra persona a meno che non incontrasse gravi difficoltà economiche. Nell’anno del Giubileo tutti i terreni venduti precedentemente ritornano ai proprietari originari. La realtà economica ritorna così al suo stato originario, dove ogni persona ha la terra ereditata dai suoi antenati e da essa si può mantenere e sostenere.

Il secondo ambito in cui si esprime l’aspetto egualitario nell’anno del Giubileo riguarda i servi. Una persona che è venduta come schiavo non lo ha mai fatto volontariamente. Tuttavia, c’erano quelli che caddero in difficoltà così gravi che preferirono vendersi come schiavi affinché potessero garantire la propria sopravvivenza. Nell’anno del Giubileo, tutti gli schiavi israeliti tornano liberi e ritornano alle loro famiglie e alle loro case come persone libere. Così, il Talmud babilonese descrive l’inizio dell’anno del Giubileo (trattato di Rosh Hashanah, pag. 8):

<<Da Rosh Hashanah fino a Yom Kippur [dell’anno giubilare], gli schiavi mangiano, bevono e si rallegrano, e le loro corone sono sulle loro teste. Una volta arrivato lo Yom Kippur, la corte suona lo shofar e gli schiavi vengono rimandati alle loro case.>>

La ragione che la Torah fornisce per la liberazione degli schiavi nell’anno del Giubileoi è questa (Levitico 25, 42):

<<Imperocchè servi miei sono, i quali ho tratti dalla terra d’Egitto; non possono vendersi in guisa da diventar schiavi.>>

Dio stabilisce che siamo Suoi servitori, solo per liberarci dal giogo di un’altra persona. La servitù verso Dio non è degradazione; va vista come la strada verso la libertà. Quando riconosciamo che siamo tutti servitori di Dio, comprendiamo che non abbiamo il diritto di dominare gli altri. Quando siamo effettivamente riusciti interiorizzare la nostra servitù verso Dio, è possibile raggiungere la vera uguaglianza tra gli esseri umani.

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