La maledizione dell’arcobaleno
dal progetto “Simchat Torah challenge” in collaborazione con Accidental Talmudist, Salvador Litvak
Noi ebrei americani siamo preparati a ciò che sta per arrivare? – Parshat Noach 5786 di Dr. Mijal Bitton
Rachel Goldberg si risposa.
L’anno scorso ho scritto di suo marito, il rabbino Avi Goldberg z”l, riservista e amato educatore (fu rabbino militare), caduto in combattimento a sud del Libano il 26 ottobre 2024. Quest’anno si è fidanzata.
Rachel non è sovrumana, e non è priva di cicatrici. Eppure la sua scelta di amare e rischiare di nuovo, cattura la grazia silenziosa che abbiamo visto in Israele dal 7 ottobre: un popolo che piange e ricostruisce, che continua a scegliere la vita (https://youtu.be/qa7uCkF1TCQ?si=ie7ufViH4qokj5bR).
È la fede che Noè, l’eroe della parasha di questa settimana, non riuscì a trovare dopo il diluvio. Alla nostra tavola dello Shabbat, benedico mio figlio affinché sia come Efraim e Menashe, mia figlia affinché sia come Sara, Rebecca, Rachele e Lea.
Ma nessun genitore ebreo dice: “Sii come Noè”. C’è qualcosa di inquietante in lui; non è un cattivo, ma nemmeno un eroe.
Noi ebrei americani dobbiamo capirne il motivo. Perché in questo momento corriamo il rischio di ripetere il suo errore.
Pensate alla vita di Noè in tre atti.
Prima del diluvio, è giusto.
Durante il diluvio, salva l’umanità e ogni specie animale.
Dopo il diluvio, pianta una vigna, si ubriaca e si vergogna. L’uomo che aveva salvato il mondo non può più viverci.
Considerate ciò che aveva sopportato: l’umanità in decadenza e distruzione, 120 anni per costruire un’arca, 40 giorni e notti di lavoro senza fine nel diluvio. Poi, dopo un anno di attesa che le acque si ritirassero, Noè finalmente esce. Dio gli offre il patto dell’arcobaleno: non manderò mai più un diluvio.
Ecco la mia teoria su cosa è andato storto.
Noè fraintese. Sentì l’arcobaleno come un permesso di riposare. Il mondo ora è al sicuro. La lotta è finita. Poteva finalmente tirare un sospiro di sollievo.
Ma la vita dopo il diluvio richiedeva ancora lavoro: un lavoro duro e cosiddetto “sporco”. Costruire una civiltà. Gestire le tensioni familiari. Affrontare il proprio trauma e le disfunzioni dei figli. Il mondo aveva ancora bisogno di cure.
Noè non era pronto per quel tipo di lotta. Aveva preparato tutta la vita alla catastrofe: il diluvio, la sopravvivenza, il salvataggio. Ma non aveva un quadro di riferimento per il lavoro più lento e sottile di vivere dopo un disastro.
Questa è la trappola: quando crediamo di aver raggiunto la salvezza, perdiamo la capacità di affrontare ciò che verrà dopo. L’aspettativa di tranquillità indebolisce proprio i muscoli che ci aiutano a resistere.
Così piantò una vigna, si ubriacò e concluse la sua storia nudo e umiliato.
Ora confrontalo con il suo discendente Abramo, che comprese la promessa di Dio in modo diverso. Come scrive Jon D. Levenson in Inheriting Abraham:
“Il patto [di Abramo]… non garantisce la libertà dalle avversità o una vita senza sofferenza… Al contrario, l’avversità e la sofferenza sono ora incluse [nella promessa del patto].”
Noè sentì: “Riposati ora”. Abramo sentì: “Cammina con me”.
Il fallimento di Noè non fu il fatto di essersi arreso. Fu il fatto di aver pensato di potercela permettersi di arrendersi.
Questo messaggio è urgente. Per decenni, noi ebrei americani abbiamo commesso lo stesso errore.
Abbiamo vissuto sotto il nostro arcobaleno. Non l’abbiamo mai chiamato così, ma ci siamo comportati come se la sicurezza fosse permanente, garantita dal liberalismo, dalla tolleranza e dalla memoria dell’Olocausto.
L’ordine del dopoguerra. La coalizione per i diritti civili. L’accettazione sociale. Pensavamo di aver finalmente guadagnato la sicurezza ebraica. Così abbiamo smesso di insegnare ai nostri figli a combattere, perché pensavamo che la lotta contro l’antisemitismo fosse finita.
Poi le acque si sono alzate di nuovo.
Le proteste nei campus. Il silenzio degli amici. L’odio per gli ebrei che si alimentava con gli algoritmi dei social media. La consapevolezza che le nostre alleanze erano condizionate, la nostra sicurezza negoziabile. Siamo rimasti scioccati.
Avevamo vissuto come se l’arcobaleno fosse reale.
Ed ecco parte di ciò che dobbiamo capire per il lavoro che ci attende: il benessere che abbiamo raggiunto non ha solo indebolito la nostra vigilanza; l’ha cancellata. Il benessere non solo ti rilassa. Ti riprogramma. Fa sembrare l’azione estrema. Fa sembrare il coraggio superfluo, finché non è troppo tardi.
Molti israeliani, al contrario, non hanno mai pensato che la lotta fosse finita. Hanno costruito uno stato sapendo che avrebbero dovuto vivere di spada. I loro figli imparano a combattere non come una contingenza, ma come un dato di fatto.
Rachel Goldberg capisce ciò che Noè ha dimenticato: che i patti non sono promesse di tranquillità, sono inviti a trovare uno scopo. La resilienza non è l’assenza di dolore; è il rifiuto di lasciare che il dolore diventi un permesso per la paralisi.
L’arcobaleno non era un dono. Era una prova che Noè fallì.
La domanda per gli ebrei americani è se falliremo anche noi.
Continueremo a piantare vigne in una diaspora che scambiamo per Sion? O impareremo ciò che sapeva Abramo e ciò che vivono così tanti israeliani: che la vita ebraica non è mai stata una questione di sicurezza, ma di scopo, di azione e della scelta quotidiana di costruire, combattere e resistere alla seduzione del riposo?
Il mondo che credeva nel nostro arcobaleno non c’è più e le sfide che ci attendono sono reali. Qui a New York, potremmo presto avere un nuovo sindaco che, quando gli è stato chiesto per la prima volta, non è riuscito a dire che Hamas dovrebbe disarmarsi, un uomo che molti di noi ritengono rappresenti una vera minaccia per il benessere ebraico. Affrontare questo, e tutto ciò che rappresenta, significa ricostruire i nostri muscoli per la lotta.
Non esiste un lieto fine. Non c’è mai stato.
Essere ebrei significa lottare, non aspramente, ma fedelmente. Viviamo, gioiamo e insistiamo sulla gioia ebraica, sapendo che il patto non ha mai promesso facilità, ma solo uno scopo. Il nostro compito non è aspettare la sicurezza, ma scegliere la vita.
Non perché sia facile.
Perché il patto lo richiede.
Ancora e ancora.



